È sorprendente comprendere come il panorama canoro italiano tenda profondamente a rinviare le problematiche storiche e sociali del nostro tempo in una sorta di velato dimenticatoio. Lo stesso Festival di Sanremo, che è manifesto delle tendenze e delle richieste musicali annuali, è immagine di questa perenne volontà evasiva: ogni brano musicale DEVE ricordare il gusto della fuga dalla problematicità, attenendosi ad una canzone strettamente consolataria, che non ferisce, che non penetra.
Questo non è il caso di Ghali, ormai famoso rapper trentenne, che, sperimentando sulla sua stessa pelle le contraddizioni dell’essere a e nel mondo, ha adottato un passo successivo: raccontare con disincanto la quotidianità. I suoi sono brani musicali che squassano (oltre al semplice far riflettere) e che conducono ad una dimensione estremamente scomoda verso se stessi e gli altri.
Chi è Ghali?
Il rapper milanese nasce a Milano nel 1993, ma la sua famiglia è di origini tunisine, trasferitasi in Italia nella speranza di un futuro migliore. Quella di Ghali è un’infanzia difficile: vive nel quartiere Baggio, una delle periferie milanesi con più alto tasso di criminalità e deve combattere continuamente con tutte le difficoltà proprie delle degredate realtà all’ingresso delle grandi metropoli italiane.
Un degrado – sia chiaro – non fisiologico e non naturale, rispetto al quale lo Stato e lo società devono prima o poi reagire. Già da piccolo viene posto, quindi, dinanzi ad un “aut aut”: seguire lo stesso destino del padre, incarcerato quando il rapper era ancora piccolo, o provare a reagire con la musica. Una scelta non facile, nella quale è stato determinante il supporto della mamma.
È stata lei a trasmettergli la passione per la musica, lei a farlo innamorare della grandezza di Micheal Jackson, lei a consolarlo ed educarlo, lei a credere nel suo talento e farsi giurare che avrebbe ottenuto il meglio per sè, dopo ogni terribile colloquio in carcere con il padre. Inizialmente, però, Ghali è raccolto dall’inesorabilità del clima di periferia e, per sua stessa ammissione, finisce anche nel carcere minorile “Cesare Beccaria”.
Da lì, inizia un percorso di ribalta: sollecitato dalla mamma,comincia a seguire il suo talento. Prima, compiuti i 18 anni, le promesse di una casa discografica non mantenute, come predetto dalla mamma. Poi i primi contatti con Ernia, Gue Pequeno, Fedez.
La sua è un’impronta riconoscibile ed unica: adotta il rap come cura per se stesso, come confessione irrimediabile delle sue sofferenze, ma anche come un superamento delle barriere ipocrite di chi non vive realmente. Quella di Ghali è una scrittura tagliente, che necessita di tempi di sedimentazione e di riflessione. È un approccio urban, proprio di chi è sceso nelle viscere della realtà, ma anche di chi ha saputo scovarne la luce, raccontadoci e raccontandosi il suo vivere. Mai un testo eclissato nello stereotipato o nel già detto: Ghali ha una visione lucida della realtà e la mostra senza timori, senza compromessi.
Quattro i suoi album che lo hanno posto nell’olimpo della canzone italiana: Album (2017), DNA (2020), Sensazione ultra (2022) e Pizza Kebab v.1 (2023). Diversi i singoli che lo hanno posto tra i brani più ascoltati, in particolare segnaliamo “Ninna nanna“, scritto proprio per sua mamma.
Ghali a Sanremo 2024
La sua consacrazione definitiva – se di consacrazione avesse bisogno – è avvenuta durante l’ultimo Festival di Sanremo. Il rapper milanese si è posizionato al quarto posto con la sua “Casa mia“, riscuotendo uno straordinario successo di pubblico e di critica.
In particolare, però, sono diversi i dettagli che fanno riflettere sulla complessità artistica di questo grande cantautore: testo profondamente impegnato, pieno sfruttamento dei simboli dell’arte, chiedere pubblicamente il “cessate il fuoco”.
“Casa mia” è quasi il canto esatto dell’esigenza di un esilio; un esilio forzato reso necessario dalla drammatica ed irrespirabile aria del nostro tempo: non c’è nemmeno più spazio per l’esistere nei quartieri di un tempo, anche quelli sono andati via. È necessario un astronave per evacuare un mondo di zombie attaccati al cellulare, un mondo in cui la pace la si vuole determinare bombardando gli ospedali, un mondo in cui dirsi la verità è divenuto merce rara.
E merce rara è l’approccio di Ghali al Festival. In controtendenza rispetto alle ballade sanremesi, imposta una snervatura del periodo e della sintassi per consegnarci un mondo in frantumi, rispetto al quale rimaniamo indifferenti.
In questo scenario, colpiscono molto le due scelte simboliche di Ghali: l’alieno ed il medley “Italiano vero”. Scelte che dimostrano la grande maturità del rapper milanese rispetto ad una canzone quale “forma d’arte”. È la commistione tra arte e musica, tra l’immagine alienante del cittadino del mondo anti-uomo, che attacca perennemente gli altri, non riconoscendo mai nell’altro se stesso.
Ma è anche la risposta forte ai patriottismi: con le note della sua “Cara Italia” congiunte alla versione magistrale de “L’Italiano” di Totò Cutugno, Ghali non omaggia solo un maestro, ma mostra la sua visione di arte. Il rapper ha estasiato l’Ariston con il suo timbro dolorasamente consapevole ed ha dimostrato che un italiano vero si riconosce dal realismo con cui si racconta la sua storia.
Ghali ed il conflitto israelo-palestinese
Chiave dell’esperienza rivoluzionaria di Ghali al Festival di Sanremo è stato, certamente, il suo appello per la fine del conflitto israelo-palestinese. Il suo STOP AL GENOCIDIO ha fatto il giro del mondo, ma anche di tutte le ambasciate, generando l’indignazione dell’ambasciatore israeliano in Italia, al punto da richiedere che l’amministratore delegato della RAI si dissociasse pubblicamente da questa affermazione.
Ciò che ha sorpreso non è stata la reazione della RAI, in linea sempre con la fazione partitica al Governo (pensare che, ad ogni cambio di Esecutivo, si rinnovino gli incarichi in Rai per avere supporto mediatico … la dice già lunga!), quanto, piuttosto, la reazione dell’opinione pubblica, soffermatasi più a discutere sulla giustezza o meno della scelta di Ghali o sull’atteggiamento di un ente nazionale, e non sul contenuto del messaggio del rapper.
È questa una tendenza gravissima, che mostra la faziosità del nostro vivere quotidiano. Strumentalizzare questo messaggio per andare semplicemente contro la maggioranza, strumentalizzare questo messaggio per chiedere che Sanremo sia “non politico”, lucrare su un conflitto per il quale non si cercano volutamente soluzioni, pretendere che ogni forma d’arte sappia tacere: queste sono avveramenti di un vero e proprio suicidio di coscienze.
Come si può pensare di additare ad una realtà partitica negligenze nella risoluzione di questo terribile conflitto, se poi si ritorce su un’arena partitica (contemplando la stessa arma della negligenza) la massa di migliaia di vittime che insanguinano Gaza ed Israele? Come ci si può attendere che si abbia un futuro se si equipara la Politica alla sopravvivenza di partiti che sono ormai lontani dal Paese? Come si osa pretendere il silenzio dall’arte in nome di una propaganda che sta diventando quasi assoluta?
Ciò che sta avvenendo nel conflitto israelo-palestinese è un genocidio sia a causa di Hamas, che usa come scudo umano civili inermi e che ha causato il riacutizzarsi di un conflitto mai conclusosi, sia a causa di Israele, che in nome del diritto alla difesa continua ad uccidere normali cittadini, donne e bambini al solo scopo di “proteggere la propria esistenza”.
Quello che è avvenuto nel Kibbutz è stato un genocidio: Hamas ha ucciso e preso ostaggi con il solo obiettivo di eliminare Israele. Quello che sta ancora avvenendo a Gaza è un genocidio: Israele sta distruggendo ogni cosa per eliminare una volta e per tutti gli avversari di un tempo e prendere possesso di quei territori. Non esiste una dialettica degli oppressi e degli oppressori per nessuna delle due parti; esistono solo vittime che, con questa scia di sangue, non hanno nulla a che vedere.
L’opinione pubblica italiana, dinanzi a questo scenario, cosa fa? Parla, tacendo. Raccontandosi ciò che le conviene, proseguendo per macrofrazioni totalitarie che si danno contro, usando la cortina di ferro contro chi protesta per la fine della guerra, usando l’inutile antisemitismo, paragonando erroneamente il genocidio all’Olocausto ( si legga La banalità del male di Hannah Arendt e poi si giunge a queste conclusioni scellerate), pretendendo che chi chieda la sola pace si scusi per averlo fatto.
Ghali, sul palco dell’Ariston, ci ha ricordato che siamo così poco abituati a chiedere la pace, da non saperla nemmeno sussurrare semplicemente!
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