La Galleria degli Uffizi non ha certo bisogno di sontuose presentazioni. Sin dal 1769, anno in cui fu aperta per la prima volta al pubblico, la celebre galleria fiorentina è riuscita non solo ad ottenere il riconoscimento mondiale di cui tutt’oggi gode, ma anche nell’onorevole atto di saper catturare lo sguardo di migliaia e migliaia di visitatori under 25, che ogni anno vengono attraversati da un chiassoso entusiasmo, che sembra ammutolirsi davanti alla solennità di un’arte che non sembra avere tempo e in cui si riscopre lo specchio del proprio sentire.
Stando ai dati forniti dagli ultimi report ufficiali pubblicati dalla Galleria degli Uffizi, nel 2021, ad esempio, i visitatori sotto i 25 anni sono stati 326.185, vale a dire circa il 19% su 1.721.637 ingressi.
Ma cosa si cela davvero dietro questo grande successo della Galleria degli Uffizi, riscontrato dalle nuove generazioni?
Risulta essenziale dunque specificare che riferirsi alla Galleria degli Uffizi come una lista di celebri nomi quali Raffello, Michelangelo o Botticelli, non è soltanto riduttivo, ma totalmente inappropriato alla luce di tutte quelle opere dalla fama più velata, che spesso si rivelano, invece, la scoperta più gradita delle nuove generazioni.

Sono proprio le opere più in penombra, meno pubblicizzate, infatti, che la maggior parte delle volte, sorprendono i visitatori più giovani, i quali, sempre più alienati dalla società che li circonda, finiscono per ritrovare in sculture risalenti anche al I sec. a.C, significati molto più forti, diretti, ma soprattutto più affini al loro animo e alla loro visione della vita.
E’ il caso ad esempio dell’Ermafrodito (arte romana I a.C), un pregiato marmo di epoca antica che entrò a far parte delle collezioni dei Medici durante il periodo del cardinale Leopoldo (1617–1675), che nel 1669 lo acquistò a Roma, dalla rinomata collezione Ludovisi, per il fratello Granduca Ferdinando II (1610–1670). In origine conservata nella villa Ludovisi presso Porta Pinciana, l’opera, per il suo straordinario valore artistico e simbolico, fu presto destinata alla Galleria degli Uffizi. Attualmente è collocata all’ultimo piano del celebre complesso vasariano.

Il soggetto rappresentato nel marmo è il protagonista di uno dei miti più densi di significato del mondo antico: quello di Ermafrodito. Tra le fonti più autorevoli di questo mito, troviamo anche il poeta latino Ovidio che narra la sua storia nel libro IV delle Metamorfosi, scritto tra il 3 e l’8 d.C., poco prima dell’esilio voluto da Augusto. Figlio delle divinità Ermes e Afrodite, Ermafrodito cresce sul monte Ida, a Creta, ma a quindici anni decide di abbandonare il rifugio per raggiungere la regione della Caria, nell’odierna Turchia. Lì, mentre si immerge in una fonte, viene notato dalla ninfa Salmacide, la quale tenta di sedurlo.
Nel racconto ovidiano, la ninfa si avvinghia al giovane e prega gli dèi di non essere mai separata da lui. Il desiderio viene esaudito: i due corpi si fondono in un’unica figura androgina. A seguito della trasformazione, Ermafrodito chiede che la fonte acquisisca il potere di debilitare la virilità di chiunque vi si bagni.

È semplice cogliere, a questo punto, l’incredibile apertura e modernità che trasmette quest’opera agli spettatori più giovani. D’altronde il tema della viralità o per meglio dire di un certo tipo di mascolinità, impostata e prestabilita, e che nega tutte le ulteriori modalità di esprimere il maschile, è tra i più discussi nel dibattito odierno. Soprattutto quando questo schema cristallizzato di mascolinità gioca un ruolo determinante nelle dinamiche di violenza di genere. Ermafrodito, invece, sceglie in maniera libera, quanto lucida, di cedere la sua viralità. Un gesto che può essere interpretato come un grido alla consapevolezza che ad affermare la propria identità non è un sesso, né quello stesso sesso ha bisogno di dominare sull’altro per affermare se stesso.
Al contrario Ermafrodito non teme né dispera la perdita della propria virilità, ma definisce se stesso proprio in quella capacità di deliberare. Sceglie di confluire, di fondersi, là dove fusione non è né sopraffazione, né annichilimento dell’altro. Là dove questa fusione non rappresenta in alcun modo la perdita delle due individualità, bensì è contemplata solo in quell’ atto d’amore. D’altronde, anche visivamente questa unione assume i caratteri di un abbraccio, il che non può non darci l’idea, appunto, di una tensione verso l’altro, che si dona ma non doma.

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