A tu per tu con il velocista e campione olimpico italiano.
di Enzo Agliardi
Marcell Jacobs, oro olimpico a Tokyo nei 100 metri piani e nella staffetta 4×100, ci ha trasmesso con le sue vittorie un’emozione e un orgoglio che resteranno per sempre negli annali dello sport italiano e mondiale. Dopo Tokio, il sogno di Jacobs è continuato, con la vittoria ai Mondiali nei 60 metri indoor e al Campionato europeo. Incontriamo Marcell tra un allenamento e l’altro, tra una palestra e il campo ‘Paolo Rosi’ a Roma.
Marcell, ti sottoporrò alcune parole chiave: Innanzitutto, che cosa significa per te la famiglia?
La famiglia è sicurezza. Sono cresciuto con mia madre, Viviana, che è stata sempre al mio fianco. Mi ha dato l’esempio come persona capace di affrontare qualsiasi difficoltà e trasformarla in una chance per migliorare. Io non mi arrendo mai: se cado mi rialzo, se mi accorgo che la strada che ho preso è sbagliata, la cambio. Questo sono io, questo è mia madre.
Ti sei sposato lo scorso settembre e hai tre figli: a 28 anni sei un giovane padre e un campione con una bella famiglia…
Esatto! La famiglia per me è “la felicità”. E questo per me è un momento di grande felicità. Tra me e Nicole, mia moglie, è stato subito colpo di fulmine: ci leggiamo nel pensiero, io so di poter contare sempre su di lei e lei su di me. Mi ha dato stabilità, cura -nel senso di affetto – e attenzione. Il sentimento è reciproco.
I miei tre figli mi hanno reso più responsabile e mi hanno dato una motivazione cruciale nel perseguire i miei obiettivi. Tutto quello che faccio è non solo per me ma anche per loro. Jeremy, Anthony e Megan sono la mia gioia. I momenti più belli sono quelli in cui giochiamo insieme.
Gli amici?
Gli amici sono anzitutto quelli della mia adolescenza, quelli che anche se li rivedi dopo anni sembra che ti ci sei appena salutato ieri. Con alcuni è rimasto un rapporto anche oggi. C’è chi ha fatto strada e chi non ha avuto la stessa fortuna, ma tutti sono nel mio cuore. Alcuni, nei primi anni in cui gareggiavo ma non ero ancora quello che sono adesso, mi seguivano in tutte le gare in giro per l’Italia.
Li vedevo sugli spalti con lo striscione ad incoraggiarmi. Mio cugino Elia, Klajdi… Il primo tatuaggio, quando ho lasciato Desenzano per Gorizia, lo abbiamo fatto insieme, con la stessa frase tatuata sul petto: “La vera amicizia non consiste nell’essere inseparabili, ma nel separarsi senza che nulla cambi”. Poi sono arrivati gli amici atleti come me – io e Tamberi per esempio siamo anche amici – e ancora l’amicizia che si crea con il tuo allenatore e con tutto lo staff.
L’amore?
L’amore è tutto. L’amore per la corsa, che ho sentito dentro di me quando avevo solo 5 anni e che continuo a provare ogni volta che entro in campo e respiro a pieni polmoni prima di mettermi ai blocchi, anche quando devo semplicemente allenarmi.
E poi ancora l’amore per Nicole, quello per mia madre, per i miei figli. L’amore è quello che mi spinge sulla pista: io non corro per rabbia, corro per amore.
Lo sport?
Ero uno specialista del salto in lungo, poi sono passato ai 100 metri. Ma anche quando saltavo la mia forza era la velocità, e prima ancora, quando giocavo a calcio da ragazzo, il mio problema era che andavo troppo veloce e il pallone me lo lasciavo dietro… Lo sport per me è correre.
Una sfida solitaria, con me stesso. La corsa non è un gioco di squadra, a parte la staffetta, ma significa superare sé stessi, prima ancora che gli avversari. E questo, soprattutto per i giovani, è un insegnamento per la vita.
Cosa ti fa venire in mente la parola “competizione”?
Per tanti anni ho sofferto ai blocchi di partenza pensando a quello che tutti si aspettavano o pretendevano da me. Poi ho imparato a concentrarmi e a considerare solo me stesso, a non curarmi degli avversari.
Quando mi sono trovato più direttamente in competizione con qualcuno e all’inizio ho anche perso, ce l’ho messa tutta per migliorarmi e poi vincere. E quando ci sono riuscito, dopo ho subito pensato che la rivalità insegna a perdere. E che saper perdere insegna a vincere.
Marcell, il nostro magazine è dedicato alle eccellenze del ‘Made in Italy’: cosa significa questa formula per te?
Beh, diciamo che io mi “sento” made in Italy. Sono nato negli Stati Uniti da padre americano e madre italiana, forse nei miei muscoli qualcosa di americano c’è, anzi sicuramente, ma mia madre mi ha subito portato in Italia e sono cresciuto tra Castiglione delle Stiviere e Desenzano, e quello è il mio luogo del cuore.
Forse adesso anche Roma, dove ho trovato le condizioni ideali per allenarmi e dove vivo con la mia famiglia. Sono cresciuto nella bellezza, nella cultura, nella voglia di farcela tipica dell’Italia e degli italiani. Soprattutto nella nostra cura per i dettagli, nel desiderio di perfezione e nella straordinaria capacità di sognare e realizzare i sogni. Questo, per me, è il made in Italy.
A cosa pensi se parliamo di velocità?
La velocità la sviluppo tutta in meno di dieci secondi. Certo, sembrano pochissimi, ma anche per fare in modo perfetto quei famosi “meno di dieci secondi” c’è bisogno di tanto tempo e di tanto lavoro, e quindi in realtà diventano lunghissimi perché hanno diverse fasi e ciascuna di esse va studiata ed eseguita al meglio. E poi “velocità” mi fa pensare a “lentezza”, che è invece il mio modo di vivere ogni giorno. Io sono lento al limite della pigrizia. Mi piace gustare le cose, avere il tempo di apprezzarle. In pista sono veloce, ma nella vita non ho fretta…