Mentre vi scrivo è ancora in vigore, per quanto fragile, la tregua fra Iran e Israele, dopo dodici giorni di conflitto che hanno fatto piombare il mondo intero in una condizione di precarietà e paura.
L’attacco americano aveva fatto presagire il peggio e, del resto, le affermazioni del Presidente Trump – in particolare sulla possibilità di rovesciare la guida di Ali Khamenei, guida suprema del regime iraniano – contribuirono a versare benzina sul fuoco.
Sia chiaro: quel regime è quanto di più aberrante possa esserci. Libertà civili e individuali negate e soffocate nel sangue, qualsiasi voce critica soppressa sul nascere. Nulla di più lontano dal concetto di democrazia liberale al quale siamo abituati in Occidente.
E tuttavia la decisione degli Stati Uniti di scendere in campo militarmente al fianco dell’alleato israeliano ha reso evidente ciò che era già abbastanza chiaro: Donald Trump non si riconosce nell’ordine mondiale che abbiamo conosciuto finora.
La cornice della NATO, gli equilibri internazionali, l’alleanza atlantica – tutti concetti o termini che abbiamo ascoltato e letto in questi anni – rischiano di essere messi in soffitta dal decisionismo unilaterale del tycoon repubblicano.
La tregua che egli stesso rivendica come un successo, dopo essersi vantato della spettacolare azione militare in Iran, appartiene a uno schema ben delineato.
Trump pensa a sé stesso e agli USA non come primus inter pares, cioè come forza oggettivamente baricentrica tanto dal punto di vista politico quanto da quello militare, ma ritiene di affermare una forma di neoimperialismo rivisitato e corretto, mediante il quale può fare e disporre ciò che in quel momento ritiene più giusto per sé.
Pensate alla vicenda dei dazi: prima annunciati, poi contrattati, infine ritirati e di nuovo riproposti. Tutto nel giro di pochi giorni, con un’altalena sui mercati internazionali che, certo, ha reso ancora più ricco qualche speculatore, ma ha altresì alterato le dinamiche economiche, gettando nel panico interi settori fondamentali per la vita del nostro Paese (penso alla moda o all’agroalimentare).
Nel frattempo, non si vede luce in fondo al tunnel a Gaza, dove la strage di bambini e donne è ogni giorno un colpo al cuore; e in Ucraina, sebbene l’incontro di ieri fra Trump e Zelensky sia stato positivo, con la conferma dell’impegno economico e dell’intelligence americana a fianco degli ucraini.
Quando fu eletto, lo scorso novembre, il Presidente americano disse che avrebbe riportato la pace nel mondo in pochi giorni.
È evidente che la promessa non è stata mantenuta.
Ma se è vero che possiamo – e l’abbiamo fatto – criticare le mosse di Trump, non possiamo esimerci dal denunciare ancora una volta l’incredibile vuoto politico che c’è in Europa.
Al netto delle iniziative dei vari leader e di una forma di coordinamento – cosa sempre avvenuta – fra Francia, Germania e Regno Unito (che paga però la Brexit), appare chiara oggi più che mai la follia di aver costruito un’unione meramente monetaria e non politica.
Le istituzioni comunitarie sono guidate da leadership non suffragate dal consenso popolare, e questo è un limite.
L’utopia degli Stati Uniti d’Europa è rimasta sulla carta.
E nel tempo, parlare di Europa è diventato sempre meno popolare, anche a causa di orientamenti discutibili come quello sul Green Deal e di decisioni vissute come imposizioni dai Paesi membri, e non come conseguenza di una necessaria collegialità.
La conseguenza è stata l’avanzata dei nazionalismi sovranisti ovunque: dal Front National in Francia, all’AfD in Germania, al movimento di Farage nel Regno Unito, e potremmo continuare.
Stipendi bassi, costo della vita in aumento, bollette alle stelle, nuove e sconfortanti precarietà.
Le guerre che aumentano, invece di cessare, sono il metadone della paura e dell’inquietudine.
La paura di qualsiasi cosa e persona diversa da noi (ecco l’odio crescente verso ogni forma di immigrazione e la reticenza sulla riforma della cittadinanza) e l’inquietudine di tanti giovani e meno giovani nel mondo che guardano al futuro non come a un meraviglioso viaggio da intraprendere, ma come a elemento di ansia crescente.
Di fronte a tutto questo, avremmo bisogno di una politica all’altezza della situazione, capace di parlare di più alla testa e, magari, al cuore delle persone, e meno alla loro pancia scatenando i peggiori istinti e impulsi.
E invece assistiamo inermi a chi la spara più grossa, a chi urla di più, a chi non cerca soluzioni durature ma preferisce gli slogan populisti.
Come dire: non mi preoccupa tanto Trump in sé, ma Trump in noi…